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La Post Modernità e le cinque emergenze Italiane
di Corrado Tocci

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La Post Modernità e le cinque emergenze Italiane
di Corrado Tocci

La pandemia lascia il Paese Italia stordito e in cerca di una “direzione di senso” da dare alla propria vita e, soprattutto, a quella delle nuove generazioni.

Per contribuire alla definizione di politiche concrete, a vantaggio del Paese tutto, occorre mettere mano a quelli che sono i punti deboli del sistema e che debbono essere urgentemente modificati, pena il fallimento di qualsiasi iniziativa politica nuova.

Il Paese è “ostaggio” di cinque emergenze: l’emergenza democratica; l’emergenza rappresentatività; l’emergenza informazione; l’emergenza economica; l’emergenza burocratica.

 

L’EMERGENZA DEMOCRATICA.

L’emergenza democratica è strettamente legata alla mancanza di certezze.

La fase storica si connota per i cambiamenti epocali. Ogni cambiamento genera incertezza, conseguentemente una proposta politica per riscuotere consenso deve infondere sicurezza. Dopo venti anni di annunci parlare di sicurezza non è più sufficiente, la proposta politica deve essere supportata da indicazioni precise e credibili, comprese le vie da percorrere.

La mancanza di indicazioni rischia di far addebitare l’incertezza alla aggressività economica dei soggetti emergenti, favorendo così ulteriori conflitti e divisioni.

La proposta politica deve camminare di pari passo con l’incertezza che viviamo, incertezza che non è più di tipo congiunturale. In Europa eravamo abituati a incertezze limitate alle aree geografiche, nel tempo, di alcuni soggetti economici o sociali.

Non fa parte della nostra cultura l’idea che l’incertezza sia strutturale e di lungo periodo.

Questa incertezza che si sta impadronendo dello stato d’animo dei cittadini sta approfondendo sempre più il fossato che divide il popolo sovrano da coloro che siedono nelle istituzioni e negli Organismi statali.

I diritti politici grande conquista del secolo scorso non sono più in grado di garantire la giustizia sociale che un sistema democratico fondato sul suffragio universale dovrebbe assicurare.

Molti cittadini sono giunti alla conclusione che la chiamata alle urne non è più fatta per conoscere l’opinione degli elettori ma per confermare o meno gli interessi di coloro che occupano posti di potere nello stato e nelle istituzioni.

La lentezza della giustizia, il trattamento dello stesso caso in modo difforme, aggrappandosi ad una ipotetica autonomia, la lotta tra politica e magistratura, tra magistrati, fa sentire sempre più solo e abbandonato il cittadino. Cittadino che si convince sempre più che deve salvarsi con le proprie forze, restando il più lontano possibile dagli uomini delle istituzioni.

Questa situazione che si sta generalizzando danneggia il nostro Stato democratico, allontana sempre più i cittadini dal partecipare alla competizione elettorale, non considerata più come cardine della vita democratica.

E’ necessario superare questa emergenza. Occorre un grimaldello, che nel rispetto del sistema costituzionale, permetta ai cittadini di essere artefici del proprio destino.

Il grimaldello si chiama sussidiarietà.

La sussidiarietà è un principio intorno al quale possiamo attivare un liberalismo sociale che sottragga l’Europa e l’Italia dall’oscillare tra: il nazional dirigismo, di stampo francese; la socialdemocrazia, di stampo tedesco; il nazional liberismo, di stampo anglosassone; e che sottragga, soprattutto, l’Italia dal suo modello, una forma composita di dirigismo concertativo, burocratismo accentuato e spontaneismo.

Tutto questo senza cedere in confuse forme di neo-centralismo federalista o di anarco-federalismo, per ciò che attiene i rapporti tra Regioni e Stato; o di dirigismo-liberismo per ciò che attiene i rapporti con il mercato.

La sussidiarietà sia orizzontale che verticale può farci uscire dall’emergenza democratica.

 

L’EMERGENZA RAPPRESENTATIVITA.

Al termine della seconda guerra mondiale il popolo italiano ha dimostrato una grande maturità democratica eleggendo coloro che erano rappresentativi, capaci di comprendere le esigenze delle famiglie, capaci di costruire uno sviluppo unitario e solidale.

L’Italia uscita dal fascismo con una struttura sociale prettamente corporativa, ebbe la fortuna di avere un Presidente del Consiglio come Alcide De Gasperi che ebbe il coraggio di proporre un “centrismo politico” in una società fondata su classi e tradizioni, evitando che si precipitasse tanto nel conservatorismo del liberalcapitalismo che nel totalitarismo marxista leninista.

Il centrismo proposto da De Gasperi è stato capace di attivare una politica interclassista che ha permesso alle classi sociali meno abbienti di poter “aumentare” il proprio standard di vita e la realizzazione di uno stato sociale.

Quel tipo di proposta politica può essere definita come un “centrismo popolare”.

Oggi un nuovo centrismo deve tenere ben presenti i cambiamenti sociali avvenuti in questi anni, come si è modificato il rapporto tra il capitale ed il lavoro a vantaggio di un nuovo quadrilatero formato da capitale, lavoro, conoscenza, informazione, che hanno dato vita alla società dei consumi.

Questa nuova società ha creato la figura dell’occupato-consumatore che non rientra affatto nella logica tradizionale delle classi.

La nozione di occupato è di gran lunga più ampia del concetto di lavoratore in senso tradizionale e comprende tutte le larghe fasce di percettori di reddito, reddito da destinarsi al consumo dei beni, aumentati nel frattempo in numero e qualità.

Il limite della cosiddetta seconda repubblica è da ricercarsi nell’ipotetico bipolarismo, proteso alla continua ricerca di neocentrismo, in una società globalizzata non più classista in un conteso di politica monetarista.

Questa scelta ha comportato politiche di carattere tecnocratico e non più popolare. Queste politiche hanno rallentato il processo di sviluppo delle categorie emergenti che chiedevano e continuano a chiedere il riconoscimento di un nuovo status socio-economico.

Questi ceti emergenti costituiscono il nuovo mondo del lavoro e proprio perché sorgono sulla disgregazione delle precedenti classi sociali sono i nuovi soggetti che, come vuole l’articolo tre della Costituzione, devono effettivamente partecipare all’organizzazione economica, sociale e politica del Paese.

Come Cristiani impegnati nel sociale proponiamo il modello della società partecipativa, che concepisce la partecipazione come alternativa al sistema attuale dei rapporti contrattuali che non fa altro che espellere lavoratori dal sistema produttivo e “parcheggiare” milioni di giovani.

Queste trasformazioni sociali hanno modificato il concetto di appartenenza alla classe o alla categoria, per cui le Organizzazioni della rappresentatività politica, economica, sociale e sindacale appaiono all’iscritto o al militante non più capaci di rappresentare il proprio status sociale, e la prima reazione si manifesta nell’isolamento, alla ricerca di soluzioni nel privato o all’interno di gruppi ristretti.

Il calo di rappresentatività è dovuto in parte al cambiamento sociale e in parte al crescente numero di esponenti delle organizzazioni che hanno privilegiato l’interesse personale a quella della categoria che rappresentano. Questo fenomeno si è accentuato con le Regioni, per cui la rappresentanza non viene più decisa attraverso il sistema elettorale ma attraverso nomine concertate a tavolino.

Questo spossessamento etico delle finalità generali da parte dei rappresentanti delle organizzazioni, ha reso più povero e confuso il confronto generale, con la conseguente perdita di consenso. L’incapacità di fare proposte politiche di interesse generale a vantaggio di provvedimenti settoriali e di interessi particolari, ha incrementato la sfiducia nelle istituzioni e la rottura del patto sociale preesistente.

 

L’EMERGENZA INFORMAZIONE.

La società moderna viene anche definita “società dell’informazione”. Il settore riveste un ruolo fondamentale nella elaborazione e circolazione del costume sociale, nella produzione e diffusione di modelli comportamentali e degli stili di vita propri della cultura prevalente.

L’universalità e la pervasività dei media fa sì che essi diventano i canali di costruzione dell’opinione pubblica per quanto riguarda la diffusione dei gusti, delle propensioni e degli orientamenti sociologici più diffusi in base a precisi interessi economici e politici.

Il tutto avviene attraverso “trasmissioni contenitore” nelle quali fanno da padrone il gossip, i comportamenti poco educati e non rispettosi del telespettatore, dando libero sfogo agli istinti antisociali dei partecipanti; o programmi di attualità politica o socio-economica con “attori” e percorsi ben definiti in modo che il risultato del dibattito sia facilmente orientabile in direzione della difesa degli interessi di chi finanzia la rete.

Il conduttore in queste trasmissioni non predilige l’informazione ma è il regista del tentativo di indottrinamento tipico degli stati a democrazia formale.

Questo strapotere nel campo dell’informazione con il tempo sta diminuendo grazie alla rete che permette in tempo reale la circolazione di notizie e immagini, sottraendole alla valutazione sulla opportunità o meno di renderle pubbliche.

Anche la rete ha dei limiti, come il prevalere della opinione di chi scrive sui fatti, sicuramente il tempo e l’evoluzione dei format permetterà di dare spazio ad una informazione più neutra, a vantaggio della società civile in generale.

La vera emergenza dell’informazione oggi è rappresentata dal fatto che, spesso, il messaggio viene fatto circolare non in funzione della ricerca della verità, ma come strumento per affermare il “pensiero unico dominante” della parte a cui appartiene la rete.

 

L’EMERGENZA ECONOMICA.

L’emergenza economica è frutto delle emergenze che affliggono il Paese da decenni, alimentata da una classe politica e burocratica tutta tesa ad aumentare il debito pubblico per avere a disposizione le risorse finanziarie necessarie a favorire interessi particolari.

Il declino economico del Paese è dovuto principalmente a diversi fattori:

  • Il primo è rappresentato dalla scelta di politica economica fatta agli inizi degli anni ottanta di rinunciare a settori strategici come il metalmeccanico, il chimico ed il tessile;
  • Il secondo, di aver prodotto una normativa riguardante le imprese, mutuata dal sistema industriale anglo-tedesco, per cui, in un Paese come l’Italia, con oltre tre milioni di micro   imprese, che occupano di media due dipendenti, negli ultimi venti anni ha introdotto norme e procedure identiche sia per il grande gruppo industriale che per l’artigiano che lavora con un apprendista. Questo stato di fatto è stato accentuato dal ruolo del sindacato che per avere un ruolo nella concertazione aveva bisogno di imprese con più di quindici dipendenti, ma, anche delle forze politiche hanno favorito il tentativo di far aggregare in forma cooperativa più imprese dello stesso settore, per poterle controllare meglio rispetto al singolo lavoratore autonomo;
  • Il terzo, una continua produzione di norme farraginose, che necessitano di continui decreti attuativi e di circolari esplicative scritte con gergo burocratese e infarcite di richiami ad altre norme. Normative che sulla stessa competenza vedono sovrapporsi il controllo di più enti che non dialogano tra loro e complicano la soluzione del caso, anche con la disponibilità dell’imprenditore a risolvere il problema presentatosi;
  • Il quarto, una riforma di natura scolastica dell’apprendistato che sta distruggendo questo istituto;
  • Il quinto, avere permesso a decine di migliaia di imprenditori di delocalizzare la propria impresa, perdendo milioni di posti di lavoro, senza battere ciglio;
  • Il sesto, un carico fiscale che la micro impresa difficilmente riesce a sopportare;
  • Il settimo, un sistema bancario ricurvo su se stesso non più in grado di sostenere le piccole imprese,
  • L’ottavo, un sistema burocratico non in grado di snellire le procedure e che fa perdere decine di giornate di lavoro al piccolo imprenditore.

Tutti denunciano il grave problema della disoccupazione, soprattutto giovanile, ma pochi si pongono il problema di cosa significhi organizzare un posto di lavoro, duraturo nel tempo medio, e la complessità burocratica da espletare collegata a questo istituto.

E’ demagogia fare spot come “occorre un giorno per aprire una azienda”, senza parlare degli adempimenti successivi e dei costi inerenti alla pura gestione.

Perché non fare uno spot su come è anche facile chiudere una azienda e su come difendersi dagli istituti previdenziali che continuano a chiedere il pagamento dei contributi anche con l’azienda chiusa, e con il sostegno di Equitalia vengono emesse cartelle esattoriali.

Non è pensabile che le grandi imprese italiane possano partecipare ad una economia globalizzata non accettando la nuova cultura industriale tesa alla ricerca del profitto a tutti i costi, che spinge le imprese multinazionali ad accelerare la transizione dal lavoro umano a quello automatizzato. Sta scomparendo quella visione manageriale che cercava di applicare le innovazioni a strutture organizzative e processi tradizionali, per cui le tecnologie avanzate erano sotto utilizzate. Questa nuova cultura persegue a tutti i costi tre obiettivi: Incremento della produttività; Riduzione del costo del lavoro; Aumento dei profitti.

Re-engineering (progettare di nuovo) è la parola d’ordine del mondo degli affari. Le imprese si stanno ristrutturando per diventare computer-friendly (abbiamo l’umanizzazione della macchina che ci diventa amica).

Le imprese computer-friendly si pongono gli obiettivi di: eliminare molte delle stratificazioni del management; comprimere il numero delle categorie dei lavoratori impegnati nei processi produttivi; creare gruppi di lavoro multifunzionali; formare i dipendenti per eseguire mansioni multilivello; snellire la parte amministrativa e burocratica.

La desertificazione del sistema produttivo italiano fondato sulla piccola impresa, spesso di natura familiare, è favorito anche dagli indirizzi politici che provengono dalla Unione Europea che con la Commissione Barroso concentrò in un'unica direzione il sistema produttivo industriale eliminando la direzione che seguiva le PMI.

 

L’EMERGENZA BUROCRAZIA

Lo Stato ottocentesco aveva previsto come attraverso il sistema burocratico si potessero raggiungere fini collettivi secondo criteri di razionalità, imparzialità e impersonalità.

L’organizzazione degli uffici della burocrazia erano stati strutturati intorno a regole impersonali ed astratte, procedimenti, ruoli definiti ed immodificabili dall’individuo che ricopre temporaneamente la funzione.

L'articolazione e l'importanza della burocrazia ha continuato a crescere ed espandersi anche in epoca repubblicana, di pari passo con il potere ed il peso politico dei burocrati: un potere formalmente limitato e subordinato a quello politico, ma estremamente frammentato, praticamente vitalizio e continuamente espanso nelle sue prerogative da una ininterrotta proliferazione di leggi, regolamenti e circolari interpretative.

La burocrazia era stata pensata come uno strumento di progresso, in grado di garantire una positiva terzietà statuale, rispetto alle forme organizzative basate sull'arbitrio e sull'esercizio individuale e dispotico di un potere personale, disponendo il potere in mano alla legge.

Purtroppo già nel secolo precedente erano emerse delle carenze del sistema burocratico che è stato accusato di: rigidità, lentezza, incapacità di adattamento, inefficienza, inefficacia, lessico difficile o addirittura incomprensibile (il cosiddetto burocratese), mancanza di stimoli, deresponsabilizzazione, eccessiva pervasività, tendenza a regolamentare ogni minimo aspetto della vita quotidiana.

Tali fenomeni dipendono strettamente da elementi intrinseci al modello burocratico, che tende ad espandersi per perpetuare ed aumentare il proprio potere, diluendo al contempo le responsabilità individuali.

Queste incrostazioni storico-funzionali in Italia si sono aggravate per alcuni aspetti peculiari di una classe politica tesa alla continua ricerca del consenso elettorale.

Fino alla metà degli anni settanta, nel rispetto della teoria Keynesiana, il disavanzo di bilancio dello stato serviva a creare sviluppo, che a sua volta creava occupazione, che a sua volta garantiva il consenso elettorale a quei partiti che avevano favorito le iniziative finanziate con il debito pubblico.

Questo meccanismo si è rotto durante gli anni settanta per cui il disavanzo di bilancio non veniva più destinato agli investimenti ma al pagamento degli interessi per i titoli emessi dalla stato a copertura del suo debito.

La classe politica prevedendo questa fase di stallo del voto di scambio si pose il problema di come farsi votare in ogni tornata elettorale. La strada scelta fu l’attuazione del titolo quinto della costituzione. Alla fine degli anni sessanta lo Stato italiano veniva accusato di essere pletorico e inefficiente, ecco l’avvio delle Regioni a statuto ordinario, che avrebbero dovuto essere Enti di programmazione e sviluppo delle potenzialità locali.

L’avvio delle Regioni a statuto ordinario permisero allo stato di sgravarsi di personale e alla classe politica di assumere migliaia di persone.

Con la fine degli anni settanta emerse la necessità di individuare altri strumenti per rinvigorire il consenso, ecco allora partire la riforma sanitaria, con la giusta motivazione che milioni di cittadini non avevano la copertura ospedaliera, anche se sarebbe stato sufficiente aprire un albo all’ente INAM.

La sanità, da come si è evidenziato in questi anni, è il settore occupato “militarmente” dai partiti i quali sono riusciti a fare in modo che buona parte del bilancio regionale sia a disposizione della sanità. Paradossalmente mentre cresceva il costo regionale della sanità cresceva pure il contributo che i cittadini dovevano pagare con il ticket.

La ricerca del consenso da parte dei partiti si era spostata dalle politiche attive in favore dei cittadini alla occupazione delle funzioni dello stato, da mettere nelle mani di una burocrazia espressione della politica.

A metà degli anni ottanta venne promulgata una legge per favorire l’occupazione giovanile, si formarono delle cooperative alle quali vennero affidati degli incarichi dagli Enti locali, dopo alcuni anni i componenti di alcune cooperative divennero dipendenti pubblici, assunti senza concorso, ma su spartizione politica, ma lo sconcertante è rappresentato dal fatto che coloro che avevano i titoli vennero inquadrati con la stessa qualifica che avevano all’interno della cooperativa, compresa quella di dirigente.

Il vero problema italiano è che ogni qualvolta si incrementa l’organico pubblico è necessario giustificarlo con un aumento del carico di lavoro degli uffici, ecco allora che scatta l’aumento delle procedure, spesso su interpretazione dell’ufficio, sfruttando la farraginosità della legge alla quale si fa riferimento.

Fino allo scandalo di “mani pulite” il potere decisionale era in mano al politico di turno che ricopriva l’incarico, la burocrazia aveva il compito di verificare l’aspetto sostanziale e formale della documentazione prodotta. Il politico rimaneva a quell’incarico per un breve periodo, conseguentemente era facile smantellare eventuali omissioni o abusi.

In questa fase, approfittando della debolezza della politica, la burocrazia si sostituisce alla politica nel momento decisionale. Il potere di firma del provvedimento passa dal politico che ricopre l’incarico al dirigente dell’ufficio. Mentre il politico continua a ruotare negli incarichi il dirigente rimane.

In questa fase parte una strategia tendente a rendere sempre più complessa e meno chiara la macchina burocratica statuale, attraverso l’emissione di continue circolari e chiarimenti, la sovrapposizione sulle competenze degli uffici statali sulla stessa materia, la produzione attraverso gli uffici legislativi di norme modificate continuamente che fanno riferimento ad altre norme delle quali abrogano o integrano piccoli particolari.

Questa modalità operativa esclude completamente il cittadino e lo obbliga ad andare a farsi interpretare, a pagamento, la norma. E ogni qualvolta si è parlato di semplificazione si è assistito ad una aumento delle procedure.

Con questa normativa si è dato un grande impulso alla corruzione definita “dei colletti bianchi” che se ne sono ben guardati dal far approvare leggi che immettessero nel nostro codice altri istituti in grado di combattere questo sistema corruttivo-concertativo.

Mentre la politica si accontentava delle dichiarazioni la burocrazia continuava a gestire il bilancio pubblico ai vari livelli, con i casi scandalosi avvenuti nel sud per il mancato utilizzo dei fondi comunitari. Nessuno è andato a verificare se il mancato utilizzo dei fondi sia dovuto a mancanza di progetti o a ostacoli messi in essere da qualcuno che non vedeva riconosciuto il suo ruolo.

L’omissione gravissima da parte del Parlamento è stata quella di non richiedere una dichiarazione patrimoniale a quei dirigenti e funzionari che avevano titolo a decidere sui finanziamenti.

Già Max Weber aveva intuito il pericolo quando scriveva: i grandi stati nazionali moderni corrono il rischio di veder spossessati gli organi rappresentativi dallo strapotere burocratico.  Entità così vaste necessitano infatti di strutture burocratiche molto articolate e invasive, così ramificate da diventare potenti e conservatrici. Il cittadino, nella società di massa, si trova così schiacciato, da essere ridotto a un suddito formalmente titolare dei diritti civili.  

Paradossalmente alla fine dell’ottocento sono stati tre filosofi italiani, Mosca, Pareto e Michels, che hanno studiato i comportamenti ed il ruolo delle elite.

Furono loro, all’inizio del secolo scorso, a mettere in luce definitiva il peso che la burocrazia avrebbe assunto: un potere spersonalizzante, monolitico, in grado di inficiare la democrazia stessa, creando privilegi inediti e bloccando l’economia. Una lezione inascoltata: oggi, oltre un secolo dopo, l’Italia è strozzata dalle bollette maggiorate, dalle multe sbagliate, dai moduli, dai permessi in fotocopia, dalle firme multiple, dalle prepotenze di un vero e proprio ceto burocratico che si nasconde dietro cumuli di scartoffie e sfugge a qualsiasi ricorso e controllo.

Tutti i Governi che si sono succeduti nei vari anni hanno messo nel loro programma un punto per riuscire a limitare la burocrazia, evitando che continui ad invadere ogni angolo della vita quotidiana e di quella economica, in questo modo se vogliamo sbloccare la crisi, la corruzione si attenuerebbe.

Tutto è immobile, nulla è risolvibile, vivere e lavorare in questo paese è diventato difficilissimo.  La soluzione? Non c’è, non esiste forza in grado di scardinare le resistenze cardaniche della incrostazione burocratica. Sperare in un miglioramento dall’interno, augurarsi una rigenerazione di funzionari pubblici efficiente e autoripulente è pura illusione.

Una speranza per il futuro? eleggere una classe politica che non viva di politica o finanziamenti pubblici, ma che conoscendo il sistema Paese possa eliminare quelle procedure inutili e dannose all’economia permettendo alla burocrazia di svolgere il suo ruolo storico di razionalità, imparzialità e impersonalità a difesa dello stato.

La qualità della vita dei cittadini è legata alla competitività del Paese.

La competitività rimane la questione centrale che la politica deve affrontare. Essa è legata alla ricomposizione del tessuto sociale. La competitività è un obiettivo da praticare, da attuare, dando spazio alle forze sane presenti sul territorio.

Il progetto politico deve fare in modo che le persone vi si ritrovano, come identità e come proprio modo di essere, e vedano difesi gli interessi propri e dei figli nella azione politica proposta.

Il progetto politico deve definire quali interessi si vogliono trattare e conseguentemente identificare attraverso quali processi si vuole dare risposte concrete, fattibili, alle esigenze concrete.

In una società globalizzata occorre definire prima quali sono gli interessi reali che concorrono alla definizione della identità nazionale e attraverso quali processi si vogliono difendere. Il collante non può che essere l’individuazione dei caratteri comuni di questi processi.


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